Vivere Torino nell’anno del Covid


–  Torino. 

Ferite aperte che stentano a rimarginarsi. Stralci di umanità perduta. La città sabauda nel giorno in cui ricorre la festa di San Giovanni, suo Patrono, sembra ancora imbronciata, delusa, tradita da quell’allontanarsi della sua gente che dall’inizio di Marzo si è rinchiusa in casa abbandonando tutto ciò che è vita. E’ stato come partire per un lungo viaggio che spezza le abitudini quotidiane, che recide la complicità confidenziale con la tua città, rifugiati come siamo stati in quel lungo ed esausto lockdown che ci ha messo al riparo dal contagio di un virus letale. Paure, angosce che ancora oggi non sono smaltite per effetto di una situazione pandemica che nel nostro Paese sembra avere perso la sua potente carica virale, ma non è ancora tale da mettere tutti al riparo dal suo probabile ritorno. Distanziamento, mascherine e cura igienico sanitaria restano alla base del quotidiano vivere che, comunque, ci ha cambiato nel profondo dell’anima. No festeggiamenti di massa, no abbracci, no baci e strette di mano, sì a relazioni virtuali supportati dalla tecnologia. Ma Torino soffre, non ci sta, e anche questo festeggiare il proprio Patrono in simili situazioni di freddezza, sembra quasi una forzatura di un incontro tra chi nutre rancore e poi si rivede per giustificare una circostanza. In questi lunghi mesi il rapporto dei torinesi con la propria città sembra essersi raffreddato ma non certamente incrinato. Mancano le serene passeggiate lungo Via Roma, Piazza Castello, Piazza San Carlo, Via Po, Piazza Vittorio, manca il gusto di godere angoli che trasudano di storia antica come i Giardini Reali, Palazzo Reale, Palazzo Madama che sono il vanto nel cuore di Torino. E poi quel rilassarsi a bere un caffè tra i tavolini all’aperto dei bar, non sembra essere più come prima in una città in cui riecheggia ancora il silenzio assordante delle privazioni dello spostarsi da casa, se non per cause strettamente necessarie. La città della Mole si è sentita dimenticata, sola, accompagnata soltanto dallo stridio delle sirene incessanti delle ambulanze che si ripetevano ininterrottamente giorno e notte. C’era altro da pensare, non si potevano materialmente curare i rapporti interpersonali con la propria città tanto amata, quanto allontanata per troppo amore. Ma Torino, questo sottile pensiero altruistico non l’ha capito, l’ha presa a male e adesso sembra mantenere rancore proprio ora che i torinesi cercano timidamente di far pace, nonostante le ferite tardino a rimarginarsi. Sì, perché in questo rapporto reciproco di ipotetico tradimento con la città, c’è la malinconia di una ripresa difficile dal punto di vista del lavoro e della salute. La cassa integrazione per tanta gente che ha perso il lavoro e non sa come andare avanti, si riflette in un disagio sociale che rattrista e ti fa rivivere ricordi ingialliti dal tempo, in cui la nobile città Sabauda si fregiava di benessere economico e di un settore automotive che era il proprio fiore all’occhiello. Un decadimento che il virus maledetto ha accentuato nell’acceleramento peggiorativo di una città in cui si avverte la crisi di ceti che si sono impoveriti e di giovani che perdono progressivamente la speranza di trovare sbocchi lavorativi per il loro futuro. E anche per le strade della bella Turin in cui prima si incontrava gente sorridente, adesso pullula di sguardi preoccupati e di problemi sociali che peggiorano l’esistenza. I pasti offerti dalle Charitas torinesi sono sempre più numerosi e le lunghe code all’orario di pranzo testimoniano l’aumento di famiglie bisognose. Sempre più alto è il senso del volontariato in aiuto al prossimo, un po’ come dire che si è più vicini nel mal comune. E chissà se oggi, la nobile Torino con la sua orgogliosa Mole Antonelliana illuminata a festa, riuscirà a sorridere almeno un po’, dimostrando che in fondo è bello fare la pace in un momento in cui unirsi rappresenta il senso forte per combattere la disgregazione sociale. Rinascerai Torino, rinascerai! Ma adesso che le ferite sono ancora aperte, stringiti alla tua gente per guarirle.

Salvino Cavallaro

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